Dei motivi decorativi
tesori d’archivio • pattern
Durante il suo Grand Tour in Italia e in Egitto, il giovane architetto tedesco Friedrich Maximilian Hessemer disegnò i motivi decorativi trovati in chiese, moschee e palazzi.
☞ Li pubblicò anni dopo in un libro, uscito nel 1842.
Delle teorie del colore
libri • colori • arte & design
«Raccogliendo oltre 65 libri rari e manoscritti provenienti da numerose istituzioni, comprese le collezioni di colori più illustri di tutto il mondo, The Book of Color Concepts accompagna il lettore in un’odissea cromatica attraverso quattro secoli e oltre 1.000 immagini di ruote e globi deliziosi, grafici accuratamente raccolti, e diagrammi meticolosi».
☞ Taschen ha pubblicato un volumone (più di 800 pagine, oltre 6 kg di peso) che raccoglie le principali teorie del colore, dal ‘600 a oggi.
Un “io”, un “te”, un “noi”
libri • illustrazione • cinque
«Dopo lo scoiattolo e l’orso della premiata serie di libri di Smriti Halls, mi sembra si siano moltiplicate le “coppie” di amici negli albi per bambini».
☞ Il nostro Davide Calì consiglia 5 albi illustrati a tema “io e te”.
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👜 Il ruolo della borsa nel cinema iraniano.
☞ Irani Bag, un video-saggio vincitore del Barbara Hammer Feminist Film Award.
🍃 Durante la prima guerra mondiale c’erano dei soldati in trincea che incidevano nomi e immagini sulle foglie.
☞ Se ne parla sulla Public Domain Review.
🎸 A 30 anni dalla morte di Kurt Cobain, minimum fax ha pubblicato una raccolta di interviste al leader dei Nirvana.
☞ Su Il Tascabile c’è un estratto dell’introduzione, firmata dalla scrittrice Dana Spiotta.
⏳ Una timeline dei personaggi della cultura, della scienza e della politica, dal 3345 a.C. al 2018.
☞ Parallel Lives: Da Ötzi a Justin Bieber.
🗻 Tra i ghiacci delle Alpi svizzere.
☞ Una serie fotografica di Jennifer Esseiva.
🫧 Delle bolle di ghiaccio intrappolate in un lago vicino al ghiacciaio di Skaftafellsjökull, in Islanda.
☞ Una serie fotografica di Jan Erik Waider.
🗺️ «Attraverso la lente della cartografia fantastica, scopriamo che le mappe non sono solo strumenti di navigazione, ma racconti visivi che invitano all’esplorazione di mondi sia reali che immaginati, svelando la natura narrativa e simbolica della cartografia».
☞ Un lungo articolo di Bartolomeo Cafarella su L’Indiscreto.
🛰️ Un approfondimento sull’uso delle immagini satellitari nel cosiddetto “Data journalism”.
☞ Su Nightingale, la rivista della Data Visualization Society.
🦘 Un wallaby che mangia.
☞ Un video ASMR.
👂 Perché abbiamo il cerume?
☞ Un’animazione lo spiega.
Bonus
In principio era il giallo1
di Michel Pastoureau
È davvero il mio primo ricordo? Forse no. Sicuramente è il primo a colori. Quando mio padre, Henri Pastoreau, ruppe definitivamente con André Breton, io avevo solo cinque anni. Si erano conosciuti nel 1932 e per quasi un ventennio, nonostante le differenze d'età e di notorietà, furono legati da un'amicizia intellettuale movimentata ma solida. Negli anni del Dopoguerra Breton telefonava a casa nostra diverse volte a settimana, e non era raro che salisse da noi, su a Montmartre, per discutere con mio padre di progetti o pubblicazioni surrealiste. Ogni tanto veniva a cena e mi portava matite colorate e certa carta che era tutto tranne che carta normale: mai bianca, sempre spessa e rugosa, dai bordi irregolari, forse recuperata da qualche tipografo o ritagliata da qualche cartonnage. Per un bambino quella carta insolita era, bisogna ammetterlo, abbastanza deludente, anche quando Breton si divertiva a «dipingerci» sopra usando una patata tagliata a metà: stendendoci un po' d'inchiostro o di tempera si trasformava in una specie di timbro colorato, che bastava premere sulla carta per ottenere delle strane figure. Gli piaceva dargli una forma che ricordava quella di un pesce, e le sue preferenze cromatiche andavano perlopiù al verde. Conservo parecchi di quei «disegni-timbro» che hanno rallegrato la mia infanzia surrealista. Allora non sapevo che in un buon numero di Paesi la patata veniva usata come timbro nella falsificazione di lasciapassare e documenti ufficiali.
Per mia madre le cene con Breton rappresentavano delle ardue prove culinarie. In materia di cibo era infatti molto schizzinoso e ci imponeva quelli che erano dei veri e propri veti alimentari. Ad esempio non si dovevano servire carote, sardine o fegato di vitello. I piselli, al contrario, erano benvenuti, anzi quasi d'obbligo. Quanto alla birra, era «un'infamia» (opinione che condivido pienamente).
Se non ho conservato ricordi precisi di tutti i disegni che Breton fece sotto i miei occhi, l'immagine che serbo della sua persona è invece estremamente netta. Essa presenta tre peculiarità: un uomo più anziano di mio padre, dotato di una testa enorme e vestito con un gilet giallo. Più della sua voce affettata, inquietante per l'orecchio di un bambino, era la sua testa a mettermi paura: mi sembrava veramente sproporzionata rispetto al resto del corpo ed era ornata da una capigliatura abnorme, folta e lunga. Il mio amico Christian, che abitava di fronte a me e la cui nonna era la custode del nostro palazzo, diceva che aveva una testa da «stregone pellerossa». A noi infatti sembrava portasse una maschera. Mi stupisce che i biografi di Breton abbiano parlato così poco di quella sua testa insolita, che colpiva per dimensioni e lineamenti, trasmettendo innegabilmente un'impressione di nobiltà e di autorità, ma terrorizzava i bambini di Montmartre. Forse l'amore di Breton per le maschere veniva da lì...
Comunque, più ancora di quella testa, che è stata frequentemente dipinta o fotografata, ciò che resta più saldamente ancorato nella mia memoria visiva è il colore di un onnipresente gilet giallo, un giallo brillante, caldo, quasi zuccheroso, di cui potrei ritrovare ancora oggi senza difficoltà la sfumatura su un campionario di colori. È poco probabile che Breton si sia tolto la giacca davanti a me per cenare, per lui era un gesto eccezionale. Ma come poteva essere, nei primi anni Cinquanta, un gilet capace di colpire così profondamente il bambino che ero allora? Di cos'era fatto, e di che colore era veramente? Era forse un soprabito di cuoio? Di pelle? Di daino? Un semplice gilet di feltro o di lana beige che la mia memoria ha trasformato in color miele? O magari un capo eccentrico, come capitava che ne indossasse — sul ponte della nave che lo portava in America, Claude Lévi-Strauss e altri lo videro aggirarsi in uno strano «impermeabile in spugna azzurro cielo» — e quindi veramente di quel giallo così vivace e caldo? Probabilmente non lo saprò mai, perché diversamente dall'immagine impressa per sempre nella mia memoria, tutte le fotografie scattate a quell'epoca sono in bianco e nero. Quale mutazione cromatica ha determinato il ricordo in un capo forse dei più ordinari? E perché? Per conservare memoria di un personaggio fuori dal comune e per molti versi spaventoso? Oppure per riecheggiare immagini più recenti e più aderenti alla mitologia bretoniana? Fra noi e i ricordi se ne intromettono altri, i nostri e quelli che ci sono stati raccontati.
Alla fine poco importa. Nella mia memoria André Breton e, insieme a lui, l'intero movimento surrealista rimarranno per sempre associati a una certa sfumatura di giallo. Per me il surrealismo sarà sempre giallo, di un bel giallo luminoso ma pieno di mistero.
Estratto da I colori dei nostri ricordi. Diario cromatico lungo più di mezzo secolo, di Michel Pastoureau, Ponte alle Grazie, 2024 (in uscita il 19 aprile).
Pastoureau (1947) è uno storico, antropologo e saggista francese. Considerato come uno dei più grandi esperti mondiali di storia dei colori, è autore di molti saggi sull'argomento, pubblicati in Italia da Ponte alle Grazie.
Che bel racconto fresco e ...immersivo!